Passa al contenuto

Tor Vergata, i giovani e le ferite del mondo

La distanza tra Roma, Gaza e Kyiv resta. Ma può diventare un ponte se trasformiamo la gioia della festa in impegno concreto
2 agosto 2025 di Antonio Martino
Tor Vergata, i giovani e le ferite del mondo cover image

Ci sono legami profondi che solo lo Spirito può tessere. Fili invisibili che attraversano le geografie, i drammi, le speranze dell’umanità. A Tor Vergata, centinaia di migliaia di giovani concluderanno il loro Giubileo insieme a papa Leone XIV: una festa di popolo, di Chiesa, di vita. Da giorni cantano, pregano, sognano insieme. Offrono al mondo l’immagine luminosa di una generazione che – nonostante tutto – crede ancora nel bene. Una generazione che vuole costruire ponti, non muri. Che cerca nella fede una bussola per attraversare le contraddizioni di questo tempo incerto e ferito.

Tor Vergata è un’icona potente. Non solo perché riunisce il volto giovane della Chiesa universale, ma perché lo fa in un momento storico attraversato da tensioni, conflitti e lacerazioni. Mentre qui si alzano le mani al cielo, altrove – a poche ore di volo – altre mani cercano riparo dalle bombe. A Gaza come in Ucraina, altri giovani non stanno festeggiando: stanno semplicemente cercando di restare vivi. Vivono tra le macerie, in rifugi precari, nel lutto e nella paura. Le immagini che arrivano – quando riescono a oltrepassare il rumore della propaganda e il silenzio delle omissioni – parlano da sole: volti impolverati, sguardi spenti, lacrime senza più voce.

La guerra – ogni guerra – ruba il futuro. Uccide la speranza prima ancora dei corpi. Scolora i sogni. E la gioventù – quella che dovrebbe costruire, inventare, progettare – viene sacrificata sull’altare dell’odio, dell’ideologia, del potere.

Sono volti che non vedremo a Tor Vergata, ma che ci interpellano con forza. Perché il Giubileo non è – e non può essere – un’oasi separata dal mondo. È un tempo sacro che ci chiede di guardare la realtà in faccia, anche quando è scomoda, anche quando ci fa paura. Non possiamo accontentarci di celebrare, se non ci lasciamo ferire da chi oggi non ha nulla da celebrare. Non è possibile vivere un Giubileo autentico – tempo di liberazione, di riscatto, di riconciliazione – voltando lo sguardo altrove, lasciando che la coscienza si abitui all’orrore, o peggio, lo giustifichi.

Il Giubileo è un segno profetico. Un “sì” gridato alla vita proprio mentre il mondo sembra dirle di no. È una sfida al cinismo dominante, che ci vorrebbe spettatori rassegnati, o peggio, indifferenti. È un promemoria di Vangelo: non una consolazione disincarnata, ma una forza viva, capace di cambiare la storia.

I giovani che pregano a Tor Vergata, i giovani che resistono a Gaza, i giovani che combattono per la libertà in Ucraina, sono più vicini di quanto immaginiamo. Lo Spirito Santo soffia dove vuole: tra le tende della festa e tra le rovine delle città assediate. Soffia ovunque ci sia qualcuno che sceglie il bene, che non si arrende all’odio, che tiene viva la speranza anche nel buio.

La distanza tra Roma, Gaza e Kyiv resta. Ma può diventare un ponte, se lasciamo che ci bruci dentro. Se trasformiamo la gioia della festa in impegno concreto. Se la speranza che ci anima si fa azione e se la fede si traduce in scelte quotidiane di pace, di giustizia, di fraternità.

Perché la vita vince anche dove è ferita, se trova chi è disposto a difenderla. E ogni giovane che oggi dice “eccomi”, qui o altrove, è già segno che il male non avrà l’ultima parola.

Il sorriso nei volti
Il Giubileo dei giovani di Ac sulle orme di Pier Giorgio Frassati