(…) L’attenzione alla sua opera non è mai venuta meno, dopo che, alla fine degli anni Sessanta, il pubblico italiano ha potuto disporre delle prime versioni dell’Etica e di Resistenza e Resa e il suo percorso biografico e intellettuale è stato tracciato con maestria, in una monografia a lui dedicata, da Italo Mancini, che degli studi bonhoefferiani in Italia deve essere considerato l’iniziatore.[1] Da allora si sono moltiplicate le traduzioni delle sue opere, fino a quella dell’edizione critica tutt’ora in corso presso Queriniana, gli studi, i commenti, i riferimenti al suo pensiero. Al punto che oggi Bonhoeffer è forse uno dei pochi teologi il cui nome e la cui opera sono conosciuti fuori dalle cerchie accademiche, e che continua a suscitare interesse e ad affascinare non soltanto all’interno della cultura cristiana, ma anche di quella laica.
Quali sono i motivi di tutto ciò? A prima vista sembrano due. In primo luogo la drammatica ed esemplare vicenda biografica di Bonhoeffer, dove il pensiero appare coniugato, in modo inscindibile e certamente inusuale per un teologo, con l’azione. Giovane e brillante docente universitario, Bonhoeffer abbandonò nei primi anni Trenta l’università per l’attività pastorale, entrando nella fila della Chiesa confessante, l’ala minoritaria della Chiesa evangelica tedesca che si oppose a Hitler. Qui egli stimolò senza sosta la resistenza ecclesiale contro il nazismo, decidendosi alla fine degli anni Trenta, e non senza incertezze, ad entrare a far parte di una congiura militare contro Hitler, culminata nel 1944 in un fallito attentato. Incarcerato già un anno prima, Bonhoeffer fu impiccato dai nazisti a seguito di questo evento il 9 aprile del 1945 nel campo di concentramento di Flossenbürg.
Resistenza e Resa, sul tema del “cristianesimo non-religioso”
In secondo luogo le riflessioni folgoranti e allusive, contenute nelle lettere spedite dal carcere all’amico e biografo E. Betghe, che le pubblicò nei primi anni Cinquanta con il titolo Resistenza e Resa, sul tema del “cristianesimo non-religioso” e del “mondo divenuto adulto”. Queste riflessioni, che non occupano più di una cinquantina di pagine, hanno dato vita ad una storia degli effetti quanto mai ampia e diversificata nel dibattito teologico contemporaneo, che si è incentrata prevalentemente sul confronto tra cristianesimo e modernità e sull’antitesi tra fede e religione. Bonhoeffer è così apparso, in ambito evangelico, come colui che ha compreso sul piano pastorale il senso della polemica luterano-barthiana contro la “religione” in nome della fede, e al tempo stesso ha intuito le chances che il processo di secolarizzazione può riservare per una rinnovata interpretazione del cristianesimo nell’attuale contesto sociale.
Non è un caso se su questa linea Bonhoeffer è stato considerato, con operazione ermeneutica a dir il vero discutibile, un antesignano della teologia della secolarizzazione e della morte di Dio. Ma anche in ambito cattolico l’opera Bonhoeffer è stata recepita sulla scia del Concilio Vaticano II e del richiamo all’autonomia delle realtà terrene presente nella Gaudium et spes, e su questa base ha ispirato ottimistici tentativi di rinnovamento sia sul versante teologico che su quello ecclesiale.
Una luce nella notte oscura della Germania hitleriana
La distanza storica che oggi ci separa da questa prima ricezione dell’opera di Bonhoeffer permette di vederne gli aspetti problematici. È indubbio che la testimonianza cristiana di Bonhoeffer risplenda come una luce nella notte oscura della Germania hitleriana, ma è altrettanto vero che il momento culminante di essa non può essere immediatamente classificato sotto la categoria “martirio”. Bonhoeffer è stato trucidato, infatti, in qualità di cospiratore politico che aveva tentato di dissimularsi, ed è per questo motivo che la Chiesa evangelica tedesca ha rifiutato a lungo di considerarlo come uno dei suoi martiri.[2]
Bonhoeffer stesso, d’altronde, in alcuni momenti (come nel bellissimo scritto retrospettivo Dieci anni dopo) ha avvertito il peso di questa sofferta decisione, sopportandola come un destino. Ma è evidente la tensione che essa ha introdotto nella sua biografia e anche nel suo pensiero, tenuto conto che egli era stato negli anni Trenta un pacifista convinto, e in un contesto politico-ecclesiale dove esserlo non procurava facili consensi, ma sorde ostilità. Anche la concentrazione esclusiva sulle lettere dal carcere e sulla tematica della “interpretazione non-religiosa del cristianesimo” appare problematica; sia perché la frammentarietà e l’allusività di quello che Bonhoeffer ha qui espresso non consentono, oggettivamente, di costruirvi sopra alcuna solida dottrina teologica, sia perché il tema assume oggi, in un tempo in cui si constata la rinascita di interesse verso la religione e si discute nuovamente sulla sua funzione civile, un profilo decisamente inattuale, per non dire superato.
Che cosa rimane dell’eredità che Bonhoeffer ci ha consegnato?
Che cosa rimane, quindi, dell’eredità che Bonhoeffer ci ha consegnato? Indubbiamente molto dal punto di vista della sua opera, se la si considera sia nel suo complesso che nel suo sviluppo. Bonhoeffer è stato fondamentalmente un outsider nel panorama teologico in cui ha operato. Formatosi a Berlino in un ambiente segnato profondamente dalla teologia liberale di Adolf von Harnack, egli colse con prontezza la crisi ineluttabile di questo paradigma teologico, aprendosi alle istanze rinnovatrici della teologia dialettica di Karl Barth.
Al tempo stesso individuò nella svolta teocentrica del grande teologo svizzero il rischio di un assolutismo teologico che egli nelle lettere dal carcere indicò con l’icastica espressione di “positivismo della rivelazione”. Questo acume critico lo portò ad intraprendere un percorso teologico originale che ruota fin dall’inizio attorno al tema del rapporto tra Chiesa e mondo, e alla necessità di riportare il kérygma cristiano dai margini della realtà mondana al suo centro. Si tratta di una problematica ecclesiologica e pastorale che sottende, però, il nodo decisivo del rapporto tra teologia e antropologia e della mediazione operata dalla cristologia. Questo intreccio, in effetti, si ritrova sotto accenti diversi in tutte le fasi della sua riflessione.
La Chiesa come il luogo della presenza del Cristo e dell’autocomprensione dell’uomo
Così, nelle opere della prima fase del suo pensiero come Sanctorum Communio (1930) e Atto ed essere (1931), o ancora nelle lezioni su L’essenza della chiesa (1932), Bonhoeffer ha sviluppato una comprensione dogmatica della Chiesa facendo largo uso di categorie sociologiche e filosofiche, ma con una schietta finalità teologica. Quella di superare sia l’individualismo religioso della teologia liberale poggiante sul trascendentalismo neokantiano, sia la comprensione attualistica della rivelazione che contrassegnava la teologia barthiana, e di mostrare così la Chiesa come il luogo della presenza del Cristo e, alla luce di essa, dell’autocomprensione dell’uomo. Il carattere teorico di queste prime opere si stempera nelle opere della fase intermedia come Sequela (1937) e Vita comune (1939), dove Bonhoeffer rilegge la necessità della vita comunitaria per il cristiano alla luce del profilo esigente della chiamata di Gesù, e dunque del nesso indissolubile tra fede e obbedienza.
Tra “grazia a caro prezzo” e “grazia a buon mercato”
Nella contrapposizione, divenuta poi classica, tra “grazia a caro prezzo” e “grazia a buon mercato”, egli svolge una serrata critica dell’indiscriminato universalismo della grazia proprio del luteranesimo, che rappresenta però anche un attualissimo monito contro il rischio della perdita della natura testimoniale dell’esistenza cristiana. I frammenti dell’Etica, risalenti per lo più ai primi anni Quaranta, tentano, ancora una volta con acutezza, di superare il dilemma fra autonomia ed eteronomia della legge morale, e di riconciliare, sulla base della cristologia, la nozione del bene con quella della realtà. È alla luce di questo percorso, breve ma straordinariamente intenso, che vanno lette le riflessioni di Bonhoeffer in Resistenza e Resa, che di esso costituiscono al tempo stesso una ripresa, una critica, una radicalizzazione.[3]
Dell’eredità di Bonhoeffer rimane poi, certamente, anche la forza e il coraggio della sua testimonianza cristiana. “Testimone di Cristo tra i suoi fratelli”, così suonava il bel titolo di un’opera di R. Marlé, uno dei primi teologi cattolici ad occuparsi di Bonhoeffer e a comprendere l’importanza della sua opera.[4] Si tratta di una testimonianza autentica, perché pagata a carissimo prezzo, ma al tempo stesso non immediatamente decifrabile per i percorsi tortuosi in cui è maturata. E questo è senz’altro un altro dei motivi per cui la figura di Bonhoeffer continua oggi ad attrarre e ad affascinare.
Note
[1] Cfr. I. Mancini, Bonhoeffer, Vallecchi, Firenze 1969. Una nuova edizione del libro, con una postfazione di Piergiorgio Grassi, è stata pubblicata nel 1995 da Morcelliana di Brescia.
[2] Cfr. E. Feil, L’eredità. Un contributo per la storia della ricezione, in G. Ruggeri (ed.), Dietrich Bonhoeffer. La fede concreta, Il Mulino, Bologna 1996, pp. 104 ss.
[3] Per una ricostruzione completa dell’intinerario intellettuale di Bonhoeffer, nel legame con le sue repentine svolte biografiche, cfr. A. Gallas, Ánthropos téleios. L’itinerario di Bonhoeffer nel conflitto tra cristianesimo e modernità, Queriniana, Brescia 1995.
[4] Cfr. R. Marlé, Dietrich Bonhoeffer, testimone di Cristo fra i suoi fratelli, (1967), Morcelliana, Brescia 1968.