Passa al contenuto

Costruire la vita, in mezzo all’orrore della guerra

Reportage dall’Ucraina. Il racconto di un pellegrinaggio solidale e di speranza, in un Paese che resiste a cura di Emanuela Gitto, Vicepresidente nazionale per il Settore giovani di Ac andata in missione con l’AC di Bologna
6 marzo 2025 di Emanuela Gitto
Costruire la vita, in mezzo all’orrore della guerra cover image

Varchiamo il confine dell’Ucraina il 24 febbraio. È il terzo anniversario dall’inizio di quella che avrebbe dovuto essere una guerra lampo, eppure continuano a suonare gli allarmi aerei sui cieli ucraini, oggi più di ieri. La mattina dopo del nostro arrivo l’app dedicata ci manda notifiche e suonano le sirene in città, le sentiamo chiaramente sopra Leopoli fuori dalla nostra finestra. La prima tappa del nostro viaggio inizia così.

Ci accolgono calorosamente padre Roman Demush e Sofia Kostenko, rispettivamente vice-responsabile e responsabile dei progetti della Commissione della Pastorale Giovanile della Chiesa greco-cattolica Ucraina (Ugcc), nostre guide in questi giorni. È una giornata di sole e la vita sembra scorrere normalmente, i monumenti in centro sono ingabbiati a loro protezione in caso di attacchi. Eppure l’aria è tesa per la paura, le migliaia di facce di chi ha perso la vita sono esposte nella piazza principale della città. La morte, in Ucraina, è diventata una cittadina ingombrante.

E di morte che si intreccia alla vita ci parla mons. Stepan Sus, vescovo della Curia Patriarcale della Ugcc, capo dell’Ufficio per la Pastorale delle Migrazioni della Chiesa greco-cattolica Ucraina. Ha toccato con mano la morte, nel suo servizio come Cappellano militare.

Lo incontriamo in centro città, nella Chiesa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, ora Cappellania militare di Lviv. È diventata un avamposto del lutto, quasi ogni giorno si celebrano funerali di soldati caduti, e tutta la comunità si raccoglie attorno ai familiari, quasi a celebrare un rito collettivo che si ripete da tre anni. Anche noi assistiamo al corteo funebre di tre soldati. Loro sono morti tra il 2023 e il 2024, ma solo oggi i familiari possono salutarli per l’ultima volta. Di famiglie in questa situazione di dolore ne ha accompagnate tante: “In questi casi, il modo migliore e più rispettoso per stare accanto alla vita delle persone è il silenzio”.

Foto di Sophia Kostenko

Quando gli chiediamo da cosa sarà necessario ripartire a guerra finita, mons. Stepan ci risponde senza pensarci troppo: ”Guarire le ferite, quelle fisiche ma soprattutto quelle psicologiche che la guerra ha prodotto e sta continuando a produrre”. Le persone possono curarsi a vicenda. Ci racconta che in mezzo a tutto questo dolore si sta vedendo l’importanza dello stare insieme, del raccogliere gli uni le fragilità degli altri, come quella donna che, piangendo sulla tomba del marito caduto in guerra, si incontrava al cimitero con un uomo che aveva perso il fratello, accogliendosi a vicenda hanno trovato l’amore in un cimitero. Chi l’avrebbe detto? Parla, mons. Sus, anche delle ferite nate tra genitori che hanno vissuto il lutto dell’unico figlio, e che sono state il presupposto per ripartire insieme.

Servirà pensare a un nuovo modo di stare accanto alle persone e di pensare l’accompagnamento spirituale delle comunità, una forma di cura che già vede la Chiesa greco-cattolica in prima linea.

”La Chiesa greco-cattolica ha adeguato la sua proposta con l’insorgere della guerra” ci spiega Iryna Havryshkevych, responsabile del Dipartimento per lo Sviluppo e la raccolta fondi della Curia Patriarcale dell’Ugcc. ”Se in una prima fase del conflitto tutte le commissioni pastorali si sono occupate dei bisogni primari delle persone (rifugio, cibo, cure mediche, ndr) – per cui la Caritas è stata impegnata sin dalla prima ora -, poco dopo la diocesi ha cominciato a interrogarsi su come poter adattare la propria missione originaria alle sfide del tempo presente. E così abbiamo iniziato a proporre dei corsi per sacerdoti, mirati alla cura e all’accompagnamento delle ferite, e a percorsi di supporto psicologico con esperti, per famiglie e minori”.

Foto di Sophia Kostenko

La Chiesa greco-cattolica Ucraina sta costruendo il suo piano pastorale su tre dimensioni: la cura delle ferite della guerra, la prossimità e la comunità cristiana. Nel lavoro su queste priorità ci sono anche dei percorsi di formazione per i sacerdoti, per aiutarli a stare accanto alle persone che vivono queste condizioni di fragilità, in primis psicologica.

Aiutare le persone a rimettersi in gioco, oltre il dolore. È ciò che letteralmente fa l’Amp Football Pokrova, una squadra di calcio formata da ex-soldati ucraini, tornati dal fronte con una gamba o un braccio in meno. Sono vivi, questo è l’importante. Li salutiamo durante un loro allenamento al centro Don Bosco di Leopoli, un’istituzione che supporta la formazione di ragazzi e giovani, al fine di favorirne l’inserimento professionale, e quindi l’autonomia economica. Le strutture sportive e i laboratori all’avanguardia sono tra i più innovativi della città.

Foto di Taras Romanyk

Dagli incontri di questi giorni impariamo che stare accanto alle persone oggi in Ucraina, vuol dire anche creare degli spazi in cui possano incontrarsi, evitando l’isolamento. Questo è il progetto di don Rostyslav Pendyuk, parroco della parrocchia di Vynnyky e direttore del centro pastorale ”Sofiiskyy Skhyl”. Lo andiamo a trovare nella sua parrocchia in costruzione, nella periferia di Leopoli. In mezzo al cantiere, si è inventato di aprire un bar nei locali della parrocchia, perché le persone possano trovare un luogo accogliente in cui fermarsi e incontrarsi. Accanto al bar, una sala aperta a tutte le donne del quartiere. Questo luogo è pensato per loro, uno spazio sicuro per farle uscire dall’isolamento. In questa guerra, come in tutte le altre, sono le donne a sostenere il peso più grande, in un fragile equilibrio tra la cura dei figli e l’attesa del ritorno dei mariti dal fronte.

Foto di Taras Romanyk

Anche le comunità più piccole, con le associazioni laicali giovanili che vivono al loro interno, si sono attivate per creare dei luoghi accoglienti di cura per tutti, a partire dai più piccoli. La realtà giovanile della chiesa locale di Ternopil è ampia e variegata: ci sono associazioni nate da poco e altre più storiche, alcune sono esperienze legate agli studenti universitari, altre sono finalizzate alla formazione spirituale di ragazzi e adolescenti, altre ancora sono organizzazioni che promuovono l’impegno nella Chiesa e nella società. Tutte, sin dal primo momento, hanno supportato le attività legate all’emergenza.

Alcuni dei loro soci sono al fronte, ci raccontano alcuni di loro, quasi tutti hanno parenti stretti o amici in combattimento. Superata la prima fase critica, queste associazioni stanno trovando una forza nuova per servire le comunità locali: chi promuove attività estive per i figli dei militari, chi si è mosso per raccogliere fondi per sostenere le necessità urgenti delle famiglie, chi continua ad accompagnare le domande di vita dei giovani.

A Kyiv incontriamo nuovamente quei giovani della diocesi accolti dall’Ac di Bologna lo scorso anno, quando la Presidenza nazionale promosse l’accoglienza di giovani ucraini nelle diocesi di Bologna e Vicenza. Ci troviamo nei sotterranei della Cattedrale della Risurrezione a Kyiv, per chi è in presenza. Molti di loro si collegano su zoom perché nelle loro città sono in corso allarmi aerei, e per questo motivo non ci hanno potuto raggiungere. Questa è l’occasione per rileggere l’esperienza di quello scambio.

”Quando torni alla vita normale hai fiducia che le cose possano davvero cambiare. Io credo che andrà bene. Due dei miei amici sono scomparsi, e a un certo punto mi sembrava che fosse la fine. Mi sono ricordata del nostro incontro, della vostra accoglienza e del vostro ascolto, e così sono tornata a sperare. La situazione è molto dura, per noi è molto importante che siate qui” ci dice Dana. Nonostante tutto, non si perde lo sguardo al futuro: ”Vorrei studiare per poter aiutare, trovando una strada che mi permetta di essere utile per la società”, ci confida Anastasia. E poi la gratitudine, per esserci incontrati nella loro città “Ci avete dimostrato che non avete paura e che ci volete bene”, sono le parole di Olga.

Foto di Sophia Kostenko

C’è già il desiderio di pensare alla ricostruzione ci dice Veronika Diakovych, responsabile della National Ukrainian Youth Association (Numo). L’associazione ha un dialogo aperto con le istituzioni per contribuire alla formulazione di una legge per le politiche giovanili. La loro missione è quella di creare ambienti sicuri, dove ragazzi e giovani possano crescere in serenità.

Insieme a lei andiamo a Bucha, la città tristemente nota per il massacro di civili durante l’occupazione russa. Entrandovi, sono pochi i segni di distruzione rispetto a quelli che sono stati prodotti in quel lasso di tempo. Le rovine lasciano il posto a condomini di nuova costruzione. Insomma, non si perde tempo a rimettersi in piedi. Ricostruire è già segno di speranza, nelle ferite ben visibili di quei giorni folli: la chiesa ortodossa al centro della città porta ancora segni dei colpi, alle sue spalle, la stele che ricorda i nomi di tutti coloro che persero la vita nella strage, e un elenco dei dispersi. “Bucha è diventata ormai luogo di pellegrinaggio”, ci racconta padre Roman.

Quello che viviamo in questi giorni ha più il sapore di un pellegrinaggio che di una mera visita. Ci sentiamo cercatori di speranza in mezzo al dolore di questo popolo, e tutta l’Associazione con noi. Dopo l’aver accolto, l’esperienza di essere accolti, in uno scambio che rigenera e dona vita.

Ce lo dice anche il Nunzio apostolico a Kyiv, mons. Visvaldas Kulbokas: ”Quello che state facendo è un lavoro teso a costruire la vita, e questa è la migliore arma contro la guerra”. Ci invita a proseguire sulla strada della concretezza delle iniziative che come Azione cattolica stiamo portando avanti. “La vostra presenza qui” – continua – “sfida le dichiarazioni dei politici, perché è una presenza di cuore”, nata dall’esigenza di “sentire” e di “toccare con mano” le ferite dei nostri fratelli e delle nostre sorelle che sperimentano l’orrore del conflitto.

Foto di Sophia Kostenko

Parole forti in giorni in cui si susseguono botta e risposta sul futuro dell’Ucraina. Mentre la questione economica è messa al primo posto nel menù degli accordi internazionali in discussione ai piani alti, è centrale la questione della ricostruzione tra le persone della comunità ucraina, che pure si sta dimostrando compatta e solidale nel momento di prova, ma allo stesso tempo si chiede cosa ne sarà di lei all’indomani della guerra.

La Chiesa greco-cattolica sta esprimendo, attraverso il suo servizio, una creatività straordinaria in questo tempo, e attraverso progetti mirati alla cura della persona sta mostrando il suo volto più accogliente anche a chi non aveva mai frequentato la comunità. Al punto che molte autorità locali chiedono la presenza di uno o due sacerdoti dove finora non ne era presente nemmeno uno. Dall’Ucraina giunge una grande testimonianza per la nostra Chiesa, spesso stanca e affaticata nel trovare modi nuovi per parlare alla vita delle persone. Una chiesa giovane, creativa, che sta facendo della cura il suo pilastro fondante.

Già adesso è tempo di curare per costruire, tempo di custodire la bellezza per salvare l’umano dentro il dolore delle ferite che la guerra ha generato.

Confronto aperto contro i divari del Paese
Il rapporto annuale Istat: sempre più disparità in Italia