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Chi opera in politica eviti derive aggressive

No al pretesto dell’autodifesa della nazione. Sì a scelte chiare e a una politica nonviolenta
27 giugno 2025 di Ernesto Preziosi
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Questo articolo proviene dal quotidiano Avvenire

I venti di guerra che continuano a soffiare e che vedono aprirsi nuovi fronti di conflitto lanciano un allarme sempre più drammatico sulla crisi del diritto, sulla irrilevanza degli organismi e dei trattati internazionali e con essi sulle possibilità della diplomazia. Uno scenario in cui l’immagine usata a suo tempo da papa Francesco di una «guerra mondiale a pezzi» trova pieno riscontro. Non sono alla vista vittorie definitive e continuano i combattimenti in Ucraina come a Gaza, dove si perpetua un genocidio. Il conflitto contro l’Iran non ha prospettato un cambio di regime e la vittoria militare resta ambigua. Ci troveremmo dunque in uno scenario che abbiamo già visto in Afganistan, in Libia, in Iraq, con governi deboli e condizioni di precarietà.

Il presidente americano con il suo protagonismo contribuisce a minare il primato del diritto nella soluzione delle controversie internazionali. Il ricorso al primato della forza, non più utilizzata come deterrente ma come azione diretta, fa sì che la legge diventi niente più che giustificazione di azioni che mirano alla distruzione di vite umane, di case e città, lasciandosi dietro una scia di disperazione e di odio che difficilmente potrà estinguersi.

Come è stato notato, Trump imprime una torsione alla tradizionale politica americana che, dal secondo dopoguerra, si è proposta come perno di un’alleanza tra Paesi democratici. A questa linea si è sostituito un approccio rude, che si presenta come un rapporto tra grandi potenze, che legittima quelle realtà politiche in cui, dietro al paravento di istituzioni formalmente rappresentative, il potere viene esercitato in forma diretta da un capo, che fa sempre più a meno del Parlamento. Inutile dire l’irrilevanza in questo quadro dell’Unione europea, ignorata e in difficoltà a causa della sua frammentazione.

In questo confuso scenario cosa dovrebbe fare la politica? Come dare voce agli organismi internazionali che pure ci sono e sono nati proprio per evitare la degenerazione delle contese?

Da anni più voci, in particolare quelle dei pontefici che si sono recati in visita all’Onu a partire da Paolo VI, chiedono un cambiamento delle regole. Parlando all’Assemblea generale nel 2015 Bergoglio ha affermato la necessità di una «riforma e l’adattamento ai tempi (…) verso l’obiettivo finale di concedere a tutti i Paesi, senza eccezione, una partecipazione e un’incidenza reale ed equa nelle decisioni». Ciò sarà possibile solo «se i rappresentanti degli Stati sapranno mettere da parte interessi settoriali e ideologie e cercare sinceramente il servizio del bene comune».

Per chi, da credente, fa politica nelle sedi istituzionali e ad ogni livello, si tratta di indicazioni imprescindibili, che richiamano l’esercizio della responsabilità pubblica al proprio ruolo. In questa stessa direzione va il recente intervento di Papa Leone in occasione del Giubileo dei Governanti e Amministratori. « L’azione politica – ha detto il Papa richiamando il discorso di Pio XI alla Fuci del 18 dicembre 1927 – va definita come la forma più alta di carità […] come un’opera di quell’amore cristiano che non è mai una teoria, ma sempre segno e testimonianza concreta dell’agire di Dio in favore dell’uomo». L’incoraggiamento del magistero, per quanto fondamentale, non basta. Quelle esortazioni diventano realtà solo a seguito di scelte nette, che chiamano in causa chi esercita il potere politico. Sappiamo che non è facile il passaggio dal livello dei valori a quello della loro attuazione nella prassi. Sappiamo che chi ha ruolo di governo deve tenere in considerazione una pluralità di fattori di non facile composizione, una serie di spinte e controspinte che vanno equilibrate. Ma questo non può valere come giustificazione di equilibrismi tattici e scelte timide che si piegano a ogni compromesso.

Non si tratta di cavalcare estremismi irresponsabili o inseguire progetti irrealizzabili. Si è piuttosto chiamati a intraprendere cammini di costruzione della pace con la fatica dell’azione diplomatica, cercando con ostinazione di costruire ponti, smascherando e rifiutando ogni deriva aggressiva che può nascondersi sotto la legittima esigenza di autodifesa di una nazione. La pace, ha detto Papa Leone, «non è un’utopia spirituale». Chi opera in politica da credente deve operare scelte chiare con una politica nonviolenta: «Se vuoi la pace, prepara istituzioni di pace».

Il momento storico che stiamo vivendo ci insegna che la via della pace passa attraverso il superamento dei nazionalismi, da sempre all’origine dei conflitti, in direzione di una vera Europa dei popoli, che si mantenga fedele alla forza dell’intuizione dei suoi Padri fondatori. Dovremmo sempre ricordare che questi ultimi, di fronte alle rovine del 1945, hanno sognato e dato vita a una società pacificata, capace di suturare le ferite di secoli di lotte fratricide

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